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La proposta di vietare i patti di non concorrenza negli USA: uno sguardo dall’Italia

Marco Biasi – Università degli Studi di Milano

Ha avuto un notevole risalto nel nostro Paese la recente iniziativa della Federal Trade Commission (FTC) americana di occuparsi di un tema prettamente lavoristico come i patti di non concorrenza (Non-Compete Agreements o, semplicemente, Non-Competes), che, come ampiamente noto, sono gli accordi tra il lavoratore ed il datore di lavoro in forza dei quali il primo incontra dei limiti nel reperire un nuovo impiego al termine del rapporto di lavoro intercorrente con il secondo.

Ad avviso della FTC, simili pattuizioni rappresenterebbero un “unfair method of competition” tra le imprese e sortirebbero effetti distorsivi sul mercato del lavoro.

Per meglio comprendere le ragioni alla radice di tale presa di posizione, giova ricordare che negli Stati Uniti non vi è alcuna norma federale che, al pari dell’art. 2125 del codice civile italiano, disciplini i patti di non concorrenza.

Ciò non può di certo stupire, se si considera il ristretto cono d’ombra del diritto del lavoro (inteso come assetto di tutele di matrice legale) in una Terra in cui vige, quale massima espressione dell’esaltazione della libertà individuale, la regola dell’employment at-will, in base alla quale ciascuna delle parti del contratto di lavoro (leggasi: il datore di lavoro) può sciogliere il vincolo “for a good reason, for a bad reason or even for a morally wrong reason” (così nella celebre Payne v. Western & Atlantic R.R. Co. (1884)).

In assenza di una cornice generale in materia di patti di non concorrenza, alcuni Stati, tra i quali l’Illinois, il Massachusetts, il Nevada e la Virginia, hanno di recente introdotto il divieto di inserire i Non-Competes all’interno dei contratti di lavoro dei dipendenti che non raggiungono una soglia minima di retribuzione annua, ritenendo evidentemente che lo strumento in parola non si attagli ai lavoratori meno qualificati e, di conseguenza, più deboli sul piano negoziale.

Sul resto del territorio ha, però, prevalso il consueto atteggiamento astensionistico, il che non ha arrestato l’incessante diffusione dei patti di non concorrenza, giunti, secondo le stime, a vincolare un lavoratore americano su cinque, di ogni tipologia contrattuale (subordinati e autonomi), livello o qualifica (fatte salve le ricordate eccezioni a singolo statuale).

Già prima del recentissimo intervento della FTC, in un executive order (“On Promoting Competition in the American Economy”) del 9 luglio 2021 a firma del Presidente Biden si era posto in evidenza come il dilagare dei Non-Competes rappresentasse una seria minaccia al fondamento stesso dell’economia americana, da individuarsi nell’aperta competizione: ad opinione del Presidente Biden, infatti, solo un mercato del lavoro libero e competitivo sarebbe in grado di spingere i migliori talenti verso le posizioni più ambite, il che apporterebbe notevoli benefici tanto ai lavoratori (in termini di incrementi retributivi e chance di crescita professionale), quanto alle imprese e, a cascata, agli stessi consumatori (sotto l’aspetto della qualità ed innovazione dei prodotti e dei servizi resi).

L’order presidenziale si era quindi chiuso con l’esortazione, indirizzata proprio alla FTC, ad intraprendere un’azione volta ad inibire l’utilizzo scorretto (unfair) dei patti di non concorrenza e degli altri strumenti limitativi della mobilità del lavoro.

Nel raccogliere tale invito, la FTC ha così elaborato la proposta – sulla quale si è aperta una consultazione pubblica destinata a concludersi entro la primavera del 2023 – di precludere in toto, su tutto il territorio nazionale e con minime eccezioni, la stipulazione dei patti di non concorrenza.

Una simile iniziativa, secondo la FTC, sarebbe destinata a tradursi in 300 miliardi di dollari di aumento salariale complessivo e nella creazione di migliori opportunità di carriera per 30 milioni di americani.

Pur non potendosi al momento prevedere se l’iniziativa della FTC andrà effettivamente in porto, o se la proposta verrà “ammorbidita” e per l’effetto degradata da un divieto assoluto ad una – più o meno rigida – limitazione dei patti di non concorrenza (come, del resto, avviene altrove), l’attuale discussione segna comunque la cifra di una nuova pagina nel rapporto tra (diritto del) lavoro e (diritto della) concorrenza negli Stati Uniti e, forse, non solo.

Se, infatti, agli albori del secolo scorso l’ascesa del movimento sindacale americano era stata inizialmente frenata dallo strumentale ricorso alle categorie dello Sherman Act del 1890 (di certo ideato per arginare dei “cartelli” ben diversi dalle Labor Unions) ed era stato necessario l’intervento del legislatore per introdurre, con il Clayton Act del 1914 (attraverso la celebre formula “labor of a human being is not a commodity or article of commerce”), uno schermo lavoristico nei confronti della legislazione Antitrust, è quasi paradossale che oggi sia il diritto della concorrenza a venire in soccorso di una regolazione protettiva del lavoro che nel tempo si è rivelata inidonea a raggiungere lo scopo primigenio di tutelare la parte debole del rapporto – e, da una specola Antitrust, del mercato – del lavoro.

Una simile valutazione non pare prima facie mutuabile per lo scenario europeo ed in particolare italiano: a latere dell’equilibrata disciplina codicistica sul patto di non concorrenza, in ordine alla quale non si registrano al momento sensibili tensioni, va dato conto di come le più recenti riforme della materia dei licenziamenti, sebbene orientate ad una maggiore flessibilità in uscita, non abbiano comunque avvicinato il nostro sistema al modello libertario dell’employment-at-will statunitense, la cui inusitata asprezza non ha risparmiato, come ci riportano le cronache delle ultime settimane, neppure i lavoratori “privilegiati” della Silicon Valley.

Un punto di contatto tra i due lati dell’Atlantico, tuttavia, c’è e interessa in particolare l’approccio nei confronti della mobilità del lavoro: se negli Stati Uniti il problema viene non sorprendentemente affrontato, mediante la proposta di vietare i patti di concorrenza, sul piano marcatamente individuale, in Europa si è cercato per lungo tempo di coinvolgere le parti sociali e l’attore pubblico nell’accompagnamento dei lavoratori nelle transizioni occupazionali, salvo da ultimo aprire una breccia a favore delle singole iniziative dei lavoratori interessati a reperire un “impiego parallelo”, in costanza di rapporto (art. 9 dir. 2019/1152/UE e art. 8 d.lgs. n. 104/2022, c.d. “decreto trasparenza”) o durante la sospensione del rapporto accompagnata dall’intervento della cassa integrazione guadagni (art. 8 d.lgs. n. 148/2015, all’esito delle modifiche apportate dalla l. n. 234/2021).

Dalla “lezione americana” sembra perciò potersi ricavare che, per un verso, non bisogna avere necessariamente paura del cambiamento (che, peraltro, nella presente contingenza storica sembra inevitabile ed in questo senso sembra deporre anche il fenomeno delle “grandi dimissioni”, sul quale si rinvia alla recente analisi di Alessandro Paone), e che, per altro verso, la concorrenza – tra imprese, ma anche tra lavoratori – non si frappone al miglioramento delle condizioni di lavoro. Anzi.

Ciò, oltretutto, sembra potersi affermare a maggior ragione in riferimento allo scenario dell’Europa, dove i lavoratori possono (o, meglio, dovrebbero poter) contare, da un lato, su un’adeguata tutela all’interno del rapporto e, dall’altro lato, su un’efficace rete di servizi per il mercato del lavoro.

È quest’ultima la vera scommessa da vincere a queste latitudini, a meno che si decida, ma a quel punto consapevolmente e dichiaratamente, di affidarsi, per ovviare alle croniche inefficienze delle strutture pubbliche o private di assistenza all’impiego e/o al reimpiego, alle sole iniziative individuali, ossia alla “Me Inc.”, come la chiamano negli States. Un simile modello, che accetta (se non proprio postula) una dicotomia di fondo, di stampo quasi deterministico, tra i vincitori e i vinti, non sarebbe tuttavia coerente con l’idea dello Stato sociale, in cui i valori della libera concorrenza e quelli della solidarietà non dovrebbero porsi in alternativa, ma fungere piuttosto da reciproco complemento.

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