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Settimana corta sì o no?

Ad oggi 8 lavoratori su 10 si dichiarano favorevoli all’introduzione in Italia della cosiddetta settimana corta e quindi alla riduzione dell’orario settimanale di lavoro da quaranta a trentadue ore settimanali.

Tale riduzione  produrrebbe degli effetti positivi per i lavoratori perché favorirebbe una maggiore conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, una riduzione dell’assenteismo,  una diminuzione dello stress e dei fenomeni di burnout, minori disuguaglianze di genere nella partecipazione al lavoro, un miglioramento generale delle condizioni di lavoro con maggiore possibilità di attrarre talenti.

Se, però, dalla prospettiva dei lavoratori sarebbero diversi gli aspetti positivi conseguenti all’introduzione della settimana corta, il nodo da sciogliere rimane quanto tale misura sia sostenibile per le aziende in un quadro generale di bassa produttività e a parità di salari ma, soprattutto, quanto sia necessario un intervento legislativo che introduca in modo indifferenziato in tutti i settori una riduzione delle ore lavorative nella settimana.

Ma procediamo con ordine. Sono tre le proposte di legge sulla riduzione delle ore di lavoro settimanali e tutte quante tendono a stimolare un intervento della contrattazione collettiva in tale senso e prevedono meccanismi incentivanti per le imprese.

Nel nostro Paese l’orario settimanale di lavoro, in attuazione della Direttiva Europea n. 88/2023, è disciplinato dal Dlgs 66/2003 che all’art 3 comma 1 fissa l’orario di lavoro settimanale in 40 ore e al comma 2 dello stesso articolo rinvia alla contrattazione collettiva la possibilità di stabilire una durata inferiore e riferire l’orario normale alla durata media delle prestazioni in un periodo non superiore all’anno. In effetti la contrattazione collettiva, in diversi settori produttivi, ha già fissato una durata inferiore dell’orario settimanale e di recente alcune aziende stanno già sperimentando la settimana corta attraverso una regolamentazione operata dalla contrattazione di secondo livello.

Lavoro in Smart Working, IA

Insomma, un intervento legislativo non sarebbe strettamente necessario dal punto di vista tecnico,  avrebbe solo la funzione di stimolare la contrattazione collettiva di settore che, come già detto, in alcuni comparti è già intervenuta in tal senso, senza tenere conto che le aziende più virtuose hanno già attivato delle sperimentazioni in tal senso attraverso la contrattazione di secondo livello.

Così come non si comprende la necessità di un intervento legislativo sulla riduzione settimanale dell’orario di lavoro dopo che da anni si ragiona sul superamento del concetto stesso di orario di lavoro. Il sempre maggiore ricorso al lavoro agile, l’introduzione delle tecnologie nei contesti di lavoro, il ricorso a forme di organizzazione del lavoro sempre più orizzontali con il progressivo sfumare del concetto di subordinazione nonché l’elevata professionalizzazione dei lavoratori in determinati comparti spingono sempre di più a ritenere che l’attenzione debba spostarsi sulla qualità del lavoro e quindi che si debba misurare più il risultato della prestazione lavorativa rispetto alla quantità della stessa

Ed è su quest’ultimo aspetto che forse il legislatore dovrebbe  concentrarsi maggiormente mettendo in discussione l’attuale quadro normativo in materia di lavoro dipendente apportando una profonda revisione al concetto di subordinazione, così come storicamente inteso e aprendo la strada ad una nuova idea di lavoro subordinato che guardi al risultato della prestazione in una cornice di maggiore flessibilità oraria.

Ma c’è un aspetto in più che in qualche modo appare legato a quanto fin qui esposto. Il sistema delle imprese ha esternato delle preoccupazioni rispetto alla possibilità di introdurre la settimana corta a parità di salario prima di tutto perché si  teme la perdita di produttività in un quadro generale già di bassa produttività. In effetti l’Italia è uno dei paesi a più bassa produttività nella UE con la conseguente difficoltà di giungere ad alti livelli di redditività che consentirebbero anche un  aumento dei salari. Appare pertanto evidente che prima di introdurre la cosiddetta settimana corta bisognerebbe mettere le aziende nelle condizioni di avviare o completare tutti gli investimenti in tecnologie non solo per migliorare la produttività ma per ottimizzare l’apporto umano al processo produttivo e liberare ore di lavoro. Ma le aziende avrebbero anche bisogno di tempo per aumentare gli investimenti in formazione sul proprio capitale umano e per  riuscire in modo più agevole a reperire le professionalità di cui hanno bisogno sul mercato. Tutto ciò porterebbe con sé, in modo automatico, l’affermarsi di modelli di organizzazione del lavoro più “smart”, più produttivi che, se anche pervasi da logiche di lavoro per obiettivi, partorirebbero in modo naturale anche meccanismi di flessibilità oraria capaci di rispondere all’esigenza delle persone di lavorare meno durante la settimana e di essere anche destinatari di migliori condizioni salariali.

In conclusione possiamo affermare con quasi assoluta certezza che gli strumenti giuridici a disposizioni delle imprese ci sono già. Serve invece una maggiore spinta per favorire le aziende  ad operare gli opportuni investimenti in nuove tecnologie, a rafforzare le competenze delle persone e a dare al nostro paese una legislazione del lavoro più moderna e più vicina alle nuove dinamiche organizzative.

Quando tutto questo si realizzerà le aziende potranno operare una riduzione dell’orario di lavoro settimanale utilizzando uno strumento che hanno già a loro disposizione e  cioè la contrattazione collettiva , capace altresì di rispondere in modo graduale e ben calibrato alle specifiche esigenze di comparto o aziendali.

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