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La politica che oggi ricorda Marco Biagi è incapace di portarne avanti l’operato

Quando Marco Biagi venne assassinato avevo 17 anni e frequentavo il liceo classico Umberto I, a Napoli. Adolescente lontano dai fatti dell’attualità fui sorpreso dal professore di latino (si chiamava Pasquale di Sabato, perla del sistema pubblico scolastico): visibilmente scosso, decise di tenere una lezione straordinaria sulla libertà delle idee ed il loro prezzo. Quell’uomo, che aveva vissuto gli anni della lotta studentesca prima ed armata poi, volle svegliare le coscienze di noi adolescenti allo scopo di tenerci lontani, nella vita, dalla sciagurata scelta della violenza per reprimere il confronto con l’altrui idea, riponendo fiducia nel dialogo a qualunque costo senza mai cedere alla prevaricazione.

Ho ripensato spesso a quella lezione, negli anni a venire, quando mi sono scoperto prima per avventura e poi per passione avvocato giuslavorista, come tanti altri indiretto allievo postumo di Marco Biagi per esperienze e frequentazioni professionali. Talvolta si dimentica che noi più giovani giuslavoristi si è oggi liberi di parlare di lavoro e praticare la professione, anche nelle vertenze più dure, poiché altri prima di noi hanno attraversato il mare mosso del terrorismo, educando con il loro sacrificio la coscienza collettiva al superamento della violenza; che talvolta ancora ritorna, nella personalizzazione ai tavoli di qualche aggressiva vertenza ma che, per fortuna, ha smesso di armare la mano di qualcuno sulla base di una ideologia sciagurata che nulla ha offerto alle battaglie dei lavoratori.

Onorare Marco Biagi vale dunque il ricordo del suo operato per riflettere sul presente del lavoro nel nostro Paese. Venne assassinato da un rigurgito terroristico posticcio, in quanto “ideatore e promotore delle linee e delle formulazioni legislative di un progetto di rimodellazione della regolazione dello sfruttamento del lavoro salariato” (così lo scriteriato messaggio di rivendicazione delle Nuove Brigate Rosse). In realtà Biagi fu il primo che seppe sganciare dalla ideologia politica la tecnica normativa ponendo al centro dell’operato del legislatore l’osservazione della realtà economica del Paese.

Il suo progetto riformatore giustamente poteva essere discusso, ma aveva il pregio di fondarsi sulla analisi empirica del mercato del lavoro dell’epoca ed era finalisticamente orientato alla “realizzabilità”, alla concreta utilità, era cioè spurio da ogni ideologia o convenienza politica.

Identificate criticità e tendenze del sistema economico italiano nel contesto globale, le proposte di Biagi volevano realmente creare un mercato del lavoro moderno, inclusivo e capace di accompagnare l’Italia nel mutamento dei tempi, di cui egli aveva individuato prima di altri ciò che sarebbe accaduto.

E infatti i limiti che aveva individuato sono puntualmente venuti fuori e ahimè rimasti invariati: bassi tassi di occupazione generale, divario territoriale, lento ingresso dei giovani nel lavoro, divario uomo-donna, inadeguatezza dei sistemi scolastici e formativi, assenza di flessibilità in entrata e uscita, tutti pesi insostenibili per uno stato moderno dinanzi alle complesse transizioni economiche che puntualmente si sono verificate (il cui prezzo sociale tutti conosciamo).

Soprattutto egli aveva presente i pericoli per l’Italia derivanti dai pregiudizi ideologici verso il cambiamento di una certa politica e di parte del sindacato, irrobustiti nella loro azione dalla paura delle persone rispetto alle fragilità del sistema, più propensi a rincorrere il consenso immediato con l’offerta di nuovi e più limitativi vincoli che non a cambiare le regole in prospettiva futura.

Se ci pensiamo, nulla di diverso da quanto sta accadendo oggi: alla desolante penuria di politiche industriali e idee sul lavoro che da queste dovrebbe derivare, si contrappongono molteplici proposte politiche finalizzate ad agitare le piazze, promettendo diritti non ben collocati entro uno schema strategico di lungo periodo, che manca del tutto.

Nessuno, tantomeno a “sinistra” e nel sindacato, sa o è in grado di dirci che cosa deve essere l’Italia di domani e come e dove lavoreranno i suoi abitanti. Ma il futuro di un Paese si costruisce, non avviene giorno dopo giorno e basta.

Biagi aveva progettato, aveva sognato, un sistema che traghettasse l’Italia del lavoro fuori da ogni tempesta, liberandolo dalle convenienze di breve termine della politica e dalla incapacità del sindacato di avere il coraggio di cambiare. Hanno voluto che fallisse, ma non pare che la politica che oggi lo ricorda abbia compreso il valore delle sue idee e delle sue azioni, incapace com’è di portarne avanti l’operato.

Di Alessandro Paone

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