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Un Paese troppo vecchio per la Gen Z

È un Paese strano l’Italia, da sempre caratterizzato da mille contraddizioni e, soprattutto, incapace di superare quelle logiche che lo rendono vecchio e incapace di autorigenerarsi. 

 

È questa la considerazione dalla quale si è costretti a partire se si vogliono comprendere alcuni fenomeni sociali che interessano il nostro mercato del lavoro e se soprattutto si vuole provare a cambiare passo tracciando nuove politiche. 

 

Il 35% degli Under 30 è pronto a lasciare l’Italia per trovare una propria realizzazione professionale all’estero e tutto questo mentre i dati ci dicono che siamo tra i Paesi con una popolazione media più anziana rispetto agli stati dell’UE, siamo in pieno inverno demografico con una preoccupante riduzione delle nascite e, dai dati forniti da Unioncamere, nel mese di settembre sono previste 1,3 milioni di assunzioni ma le imprese riescono a trovare sul mercato solo il 50% dei profili ricercati. (Mismatch al 48,4%). 

 

Negli ultimi due decenni si è registrata una riduzione di quasi 3,5 milioni di giovani under 35 e, nonostante ciò, siamo pronti a lasciare andare all’estero un terzo dei giovani del nostro Paese privandoci non solo di forza lavoro ma, possibilmente, anche dei migliori cervelli mentre il mercato del lavoro ha sete di giovani volenterosi e talentuosi. 

 

Le ragioni di tale contraddizione sono addebitate all’incapacità di intercettare i bisogni sociali delle nuove generazioni e, al contempo, all’incapacità di riformare il nostro mercato del lavoro per venire incontro ai bisogni emergenti dei giovani.  

Insomma un Paese vecchio che ha bisogno dei giovani ma che non sa porre particolare attenzione alle trasformazioni sociali, incapace di sostenere e valorizzare i giovani e soprattutto di tracciare per loro adeguate politiche per la formazione e per il lavoro. 

 

I dati Ipsos ci forniscono un identikit della Generazione Z che risulta essere molto sensibile ai temi della sostenibilità dichiarandosi pronta a non acquistare più prodotti da aziende poco attente alla sostenibilità ambientale e sociale.  Sono giovani riflessivi ma anche molto sfiduciati e fragili, che vivono in una dimensione globale, immersi nelle tecnologie e con una maggiore apertura verso i diritti civili, alla sessualità e al genere. Per questa generazione il lavoro non è al primo posto nella loro scala dei valori perché antepongono altre priorità quali la famiglia, l’amicizia, l’amore, il divertimento e la cultura, ma il lavoro rappresenta oltre che la fonte principale di reddito una grande opportunità di crescita e un modo per affermare la propria indipendenza.  

 

I giovani della Generazione Z riconoscono l’importanza sociale del lavoro e lo vedono come un importante elemento di affermazione e indipendenza ma non voglio rimanere schiacciati dallo stesso. Chiedono un’adeguata remunerazione, disponibilità di tempo libero, flessibilità oraria e autonomia anche a discapito della stabilità occupazionale. Vogliono capi che sappiano ascoltare e rifiutano l’idea di essere sfruttati, di non avere tutele e di non essere apprezzati. 

 

Nulla a che vedere con l’idea spesso diffusa che i nostri giovani non vogliono più lavorare ma solo l’affermarsi di una visione condivisibile che il lavoro è importante ma non al costo di annullarsi e di vivere solo per il lavoro o in una condizione spesso al limite dello sfruttamento.  

Basta ascoltarli questi giovani per comprendere che rispetto al lavoro chiedono una revisione dei diritti e delle tutele, nuove politiche salariali, maggiore flessibilità oraria e uno spostamento dalla misurazione della quantità del lavoro alla qualità dello stesso. Vogliono lavorare per obiettivi in contesti aziendali sostenibili che sappiano valorizzarli, ascoltarli e riconoscere il loro merito. 

 

In Italia invece siamo imbrigliati nei vecchi schemi sociali e del lavoro che queste generazioni   ormai rifiutano. Siamo professionisti nel “parlare di lavoro” nei convegni e con i post sui social ma incapaci di ascoltare le nuove generazioni e di incidere concretamente nella creazione di nuove opportunità. Siamo un Paese nel quale si crede ancora che l’occupazione possa crearsi per decreto magari introducendo l’ennesimo sgravio contributivo e nel quale lo statuto dei lavoratori o la contrattazione collettiva, figli di un modello sociale e del lavoro proprio degli anni 70, vengono ancora salvaguardati come testi sacri piuttosto che essere opportunamente innovati.  

 

Basterebbe poco per innovare e per disegnare regole del lavoro capaci di venire incontro alle richieste delle nuove generazioni. Basterebbe avere il coraggio di prendere atto che nel nostro paese serve un profondo cambio generazionale ad ogni livello. 

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